"Je pose la tasse et me tourne vers mon esprit. C’est à lui de trouver la
vérité"

venerdì 4 febbraio 2011

Pubblico, oggi, un articolo apparso ieri su Repubblica.

Vivere vintage: la nostalgia come forma culturale.
di Aldo Nove



Ascoltiamo le cover, guardiamo telefilm con i colori degli anni Sessanta, scegliamo oggetti che hanno il sapore di un' altra epoca. Nessuno si sogna di desiderare cose vecchie eppure la nostra anima è diventata vintage. Così se il cellulare ci strappa dal luogo in cui siamo per portarci in un territorio comune che ha il solo difetto di non esserci, "vintage" è quanto ci àncora alla rassicurante dimensione perduta di un passato che ha più senso del presente, è più caldo e più accogliente: una suoneria che ci ricorda il telefono di casa di trent' anni fa ci piace perché evoca quella casa e lì ci riporta, per un attimo, e non importa se in quella casa ci siamo stati veramente.
Il vintage non è uno stile, è una forma che organizza la nostalgia. Perché la forma del passato è il contenuto di un presente che urge e latita allo stesso tempo, ma che si presta a essere riempito di cose ideali. Un eterno presente bulimico di momenti fondanti, di toppe pregresse di senso.

Il vintage è questo snodo parossistico del pensiero che cerca se stesso e si ritrova dappertutto, saturando il quotidiano di un' origine che è anche impulso all' acquisto e dunque perfetto, ideale anche troppo marchio di fabbrica, quello nostro, di umani in cima a qualcosa che reclama il proprio passato per raccontarsi: com' era bello quando etc. «Tutte le storie ne contengo una - diceva Kundera - che non è stata ancora raccontata, e che probabilmente non verrà raccontata mai»: il vintage è il lato passato, secondo la successione del tempo che caratterizza l' Occidente dai tempi di Sant' Agostino, di un presente che richiama la sua origine anche in senso merceologico perché le cose sono pieni di noi e noi pure dobbiamo essere pieni di qualcosa: luoghi carichi di senso. Il senso mitico di tutti, quello più immediato, è quello dell' infanzia, quello di Babbo Natale e del gioco come forma del mondo: secondo Eraclito era il tempo degli Dei, che giocavano con gli elementi: oggi è il vintage come piacere di una mitologia delle origini di un tempo im pazzito e che corre, attualmente, troppo; ed è anche il ripiegarsi su se stesse di cose tanto invasive quanto minacciose. Se il computer di ultima generazione si "traveste" da macchina da scrivere per strapparci un sorriso ma anche per esorcizzare la sua minaccia di novità in perenne mutazione è per abbandonars ia una mitica infanzia degli oggetti che fa tornare bambini gli utenti di cose immaginate come persone. «Quando il computer era piccolo» è l' inizio del racconto sottinteso al camuffamento del vintage telematico e lo stesso vale per l' iPhone che tra le sue applicazioni più scaricate ha quella che riproduce il vecchio telefono a rotella... le cose hanno un passato e lo condividono con noi e quel passato è un mito. Mito, diceva Roland Barthes, vuole dire parola e le parole delle merci non devono apparirci troppo aggressive perché possano, come è loro compito mercantile, riempire tutta la nostra esistenza. Anche un cellulare ha la sua infanzia ovvero deve averla, e allo stesso modo le pareti della nostra casa, se in omaggio a certi orridi (ma rassicuranti) poster "vintage" di tramonti cari agli anni Settanta dello scorso secolo richiamano un luogo originario delle mura ma anche nostro. Annunciando la crisi globale, una pubblicità delle marche associate, qualche anno fa, reclamizzava i propri oggetti in quanto «cresciuti con noi»: era già l' assunto del vintage odierno che si manifestava in una crisi che cerca di combattersi esibendo la propria mitologia umana, troppo umana, carica di aggettivi vibranti e sentimentali. Se il passato epico che Pasolini ricercava e ritrovava in periferie di un' Italia sotto certi aspetti mai esistita il vintage merceologico fa lo stesso nei grandi magazzini. Proviamo a raccontarla, questa storia, in termini più generali: «Quando i supermercati dell' anima erano piccoli le merci erano bambine»... È una bella storia appena appena terrificante ma piena di essere e di sorprese nella quale chiunque in Occidente ha il piacere di ritrovarsi, ed è una storia (un mito) che esprime un doppio movimento che, attraversando i secoli ha trovato, nell' idea di vintage la sua ipostasi merceologica. L' uomo ha dapprima creato gli oggetti perché fossero gli utensili con il quale costruire il proprio mondo,e attraverso quegli oggetti è presto arrivato a costruirne altri che hanno informato i precedenti di umanità: erano gli albori dell' arte e della storia. Nel corso dei secoli quegli stessi oggetti ci hanno in qualche modo superati, accresciuto il proprio statuto in modo esponenziale e certo imprevedibile (il tutto in una manciata di decenni, potremmo dire dagli ultimi cinquant' anni dello scorso secolo ad oggi), fino a diventare dominatori della nostra esistenza (in tutti i sensi: modificando, in meglio da un lato, la nostra capacità di gestire l' esistenza e sostituendosi, generando nuove forme di povertà, a milioni di posto di lavoro dall' altro). Diceva Hegel, in risposta a un interlocutore che bollava come frivolezza il suo interesse per la moda: «E tu ti ostini a chiamare moda quello che non è altro che movimento dello Spirito nel Tempo». Bravo Hegel: ci aiuta a comprendere il presente. E a capire che il vintage nonè altro che fenomenologia dello spirito delle merci, quelle merci che saturano il nostro orizzonte di senso, e che compriamo per estendere quel senso a noi stessi. La Pop art, all' inizio del periodo che abbiamo sopra considerato come fondante (il secondo dopoguerra dello scorso secolo) ha nobilitato il quotidiano, lo ha visto per quello che era, in Occidente: una sequela di merci umanizzate (le lattine di Coca-Cola e di Campbell' s, ad esempio) e di persone mercificate (ridotte a icone commerciali: su tutte, Marilyn). Quello è stato, dicevamo, un tempo mitico e fondante delle nostre "cose". Ma non era un discorso del tutto "nuovo". Semmai, una radicalizzazione. Quando Marinetti, all' inizio di quello stesso secolo, anteponeva l' automobile alla Venere di Samotracia, profeticamente rielaborava il mito di una società delle macchine giunta oggi alla sua compiuta "spiritualizzazione". Nell' anima di un computer c' è una macchina da scrivere. E in quella di un iPhone c' è un telefono a rotella e noi, noi viviamo in un mondo di merci adulte capaci, con perfida poesia, di ritornare quello che un tempo sono (o vogliamo che siano) state: piccoli, tenerie sprovveduti virgulti di un mondo delle cose ancora candide, ancora ingenue. Come noi: in un' altra vita, in un altro mercato.


A.

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