Charles Baudelaire |
[...] Si era fatto così stampare con i meravigliosi caratteri episcopali dell'antica casa Le Clere, le opere di Baudelaire in un grande formato che ricordava quello dei messali, su di un leggerissimo feltro del Giappone, spugnoso, dolce come una midolla di sambuco e impercettibilmente tinto di un velo di rosa nel suo biancore lattigginoso. Questa edizione, tirata in un unico esemplare vellutato di inchiostro di china, era stata rivestita al di fuori e ricoperta all'interno da una magnifica e autentica pelle di scrofa scelta fra mille, color carne, picchiettata al posto delle setole e ornata di merletti neri impressi a freddo, meravigliosamente assortiti da un grande artista.
La sua ammirazione per questo scrittore era senza limiti. A parer suo, in letteratura ci si era limitati fino allora a esplorare la superficie dell'animo o a penetrare nei suoi sotterranei accessibili o illuminati segnalando qua e là i giacimenti dei peccati capitali, studiando i loro filoni, il loro sviluppo, notando, come aveva fatto ad esempio Balzac, le stratificazioni dell'anima ossessionata dalla monomania di una passiona, dall'ambizione, dall'avarizia, dalla stoltezza paterna, dall'amore senile.
Ma si trattava, in fin dei conti, di vizi e di virtù piene di salute, della tranquilla attività di cervelli formati al modo solito, della realtà pratica delle idee correnti, senza ideali di morbose depravazioni, senza al di là.
Baudelaire era andato più oltre; era sceso fino al fondo dell'inesauribile miniera, si era avventurato per gallerie abbandonate o sconosciute, era sboccato in quelle zone dell'anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.
Là, presso ai confini in cui soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la terzana della lussuria, le febbri tifoidali e i vomiti del delitto aveva trovato a covare sotto la tetra campana della Noia la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.
Aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha raggiunto l'ottobre delle sensazioni, aveva raccontato i sintomi dell'anima ricercata dal dolore, privilegiata dallo spleen.
Aveva seguito tutte le fasi di quel lamentevole autunno, guardando la creatura umana così facile a inasprirsi, così abile nell'ingannarsi da sola, costringendo i suoi pensieri a truffarsi a vicenda per meglio soffrire, sciupando in anticipo a forza di analisi e osservazioni ogni gioia posssibile.
In magnifiche pagine aveva esposto i suoi amori ibridi, esasperati dalla loro stessa incapacità di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici chiamati in aiuto per addormentare la sofferenza e domare la noia.
In un'epoca in cui la letteratura attribuiva quasi esclusamente il dolore di vivere alle disgrazie di un amore non corrisposto o alle gelosie dell'adulterio, egli aveva trascurato queste malattie infantili e sondato quelle piaghe più incurabili, più vive, più profonde che sono scavate dalla sazietà, dalla disillusione e dal disprezzo delle anime in rovina, torturate dal presente, respinte dal passato, atterrite da un avvenire senza speranza.
Quanto più Des Esseintes rileggeva Baudelaire tanto più riconosceva un ineffabile fascino in questo scrittore che, in un tempo in cui il verso non serviva più che a ritrarre l'aspetto esteriore degli esseri e delle cose, era riuscito a esprimere l'inesprimibile, grazie a una lingua tutta muscoli e polpe, e che più di ogni altro possedeva la meravigliosa capacità di fissare con una strana sanità di espressione gli stati morbosi più fuggevoli e più oscillanti degli spiriti spossati e delle anime tristi[...]
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