"Je pose la tasse et me tourne vers mon esprit. C’est à lui de trouver la
vérité"

venerdì 24 giugno 2011

Ode to a nightingale

John Keats                                                                      
the original manuscript of 'Ode to a Nightingale'
in John Keats's handwriting
Il cuore si strugge e un'ottusità plumbea
Affligge i miei sensi, quasi, pieno di cicuta,
O d'un sonnifero pesante trangugiato
Pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete:
E non certo per invidia della tua razza felice,
Ma troppo felice nella tua felicità -
Tu, m'borea driade dalle lievi ali,
Che in una macchia melodiosa
Di faggi verdi e sparsa d'ombre innumeri
Canti l'estate con la felicità della gola spiegata.
Avere un sorso di vino! E ghiacciato
Da secoli nelle profondità della terra,
Saporoso di Flora e della campagne verde,
Dei balli. dei canti provenzali. d’allegria solare!
Oh, si, bere una coppa piena di caldo meridione,
Colma di rosso, vero Ippocrene,
Con rosari di bolle che s’affacciano all’orlo
E la bocca macchiata di porpora;
Si poter, bere e inosservato lasciare il mondo
Per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure:
Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
Ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
La stanchezza, la malattia, l'ansia
Degli uomini, qui, che si sentono soffrire,
Qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,
Dove la gioventù impallidisce, si consuma e simile a un fantasma muore,
Dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
E la disperazione regna, dalle ciglia di piombo,
Dove la bellezza vede spenta la luce dei suoi occhi
E l'amore nuovo non riesce a piangerla oltre il domani.
Andarsene, andarsene. E arrivare da te,
Non portato da Bacco e dai suoi leopardi,
Ma sulle ali della poesia, invisibili,
Anche se la mente, lenta, ha perplessità e indugi:
E il, con te, subito la notte è tenera
Con la sua luna regina sul trono
E le fate stellate tutt’intorno:
Qui, invece, adesso, non ce n’è più di luce, niente,
Se non quella che dal cielo è soffiata
Giù dal vento, nel buio verde e tortuoso di muschio
I fiori che ho intorno, non il vedo,
E neppure l’incenso dolce che impende sui rami,
Ma nell’oscurità profumata intuisco ogni dolcezza
Con cui il mese propizio rende ricca
L’erba, il bosco e il selvaggio albero da frutta,
Il biancospino e l’arcadica eglantina,
Le viole, presto appassite, sepolte tra le foglie,
E la figlia più grande del maggio maturo:
La rosa in boccio, muschiata, piena di vino di rugiada,
Casa sussurrante d’insetti nelle sere estive.
Nel buio ascolto io che spesso
Ho quasi fatto l’amore con la facile morte,
L’ho chiamata coi versi più teneri della mia poesia,
L’ho pregata perché nell’aria via si portasse il mio respiro—
E mai come adesso m’è sembrato ricco il morire:
Spegnersi a mezzanotte, senza dolore,
Mentre tu butti fuori l’anima
In un’estasi stupenda!
Tu canteresti ancora: per le mie orecchie inutili
Per me, una semplice zolla davanti al tuo requiem altissimo.
Non sei mica nato per morire, tu, uccello immortale:
Generazioni di affamati non ti calpestano,
E la tua voce, che ascolta in questa notte fuggente,
Fu ascoltata già de re e da villani:
forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
Del cuore di Ruth, quando malata di nostalgia
Pianse in mezzo ai campi stranieri;
Lo stesso, forse, che tante volte ha affascinato
Magiche finestre aperte sulle schiume
Di mari pericolosi in incantate terre deserte.
Deserte! Come una campana risuona questa parola
Che mi riporta alla mia solitudine.
Addio! L’immaginazione non può più illudermi,
Come si dice sia solito fare quest’elfo ingannevole.
Addio, addio. Il tuo canto doloroso svanisce
Oltre i prati vicini, oltre il fiume quieto,
Al di là del colle – ed è sepolto adesso
Tra i boschi della valle vicina.
E stato un sogno soltanto? o una visione?
La musica è svanita: - dormo? son sveglio?

Des Esseintes su Baudelaire

Tratto da: "À rebours", Joris-Karl Huysmans (pagg 170,171,172)



Charles Baudelaire

[...] Si era fatto così stampare con i meravigliosi caratteri episcopali dell'antica casa Le Clere, le opere di Baudelaire in un grande formato che ricordava quello dei messali, su di un leggerissimo feltro del Giappone, spugnoso, dolce come una midolla di sambuco e impercettibilmente tinto di un velo di rosa nel suo biancore lattigginoso. Questa edizione, tirata in un unico esemplare vellutato di inchiostro di china, era stata rivestita al di fuori e ricoperta all'interno da una magnifica e autentica pelle di scrofa scelta fra mille, color carne, picchiettata al posto delle setole e ornata di merletti neri impressi a freddo, meravigliosamente assortiti da un grande artista.
La sua ammirazione per questo scrittore era senza limiti. A parer suo, in letteratura ci si era limitati fino allora a esplorare la superficie dell'animo o a penetrare nei suoi sotterranei accessibili o illuminati segnalando qua e là i giacimenti dei peccati capitali, studiando i loro filoni, il loro sviluppo, notando, come aveva fatto ad esempio Balzac, le stratificazioni dell'anima ossessionata dalla monomania di una passiona, dall'ambizione, dall'avarizia, dalla stoltezza paterna, dall'amore senile.
Ma si trattava, in fin dei conti, di vizi e di virtù piene di salute, della tranquilla attività di cervelli formati al modo solito, della realtà pratica delle idee correnti, senza ideali di morbose depravazioni, senza al di là.
Baudelaire era andato più oltre; era sceso fino al fondo dell'inesauribile miniera, si era avventurato per gallerie abbandonate o sconosciute, era sboccato in quelle zone dell'anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.
Là, presso ai confini in cui soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la terzana della lussuria, le febbri tifoidali e i vomiti del delitto aveva trovato a covare sotto la tetra campana della Noia la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.
Aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha raggiunto l'ottobre delle sensazioni, aveva raccontato i sintomi dell'anima ricercata dal dolore, privilegiata dallo spleen.
Aveva seguito tutte le fasi di quel lamentevole autunno, guardando la creatura umana così facile a inasprirsi, così abile nell'ingannarsi da sola, costringendo i suoi pensieri a truffarsi a vicenda per meglio soffrire, sciupando in anticipo a forza di analisi e osservazioni ogni gioia posssibile.
In magnifiche pagine aveva esposto i suoi amori ibridi, esasperati dalla loro stessa incapacità di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici chiamati in aiuto per addormentare la sofferenza e domare la noia.
In un'epoca in cui la letteratura attribuiva quasi esclusamente il dolore di vivere alle disgrazie di un amore non corrisposto o alle gelosie dell'adulterio, egli aveva trascurato queste malattie infantili e sondato quelle piaghe più incurabili, più vive, più profonde che sono scavate dalla sazietà, dalla disillusione e dal disprezzo delle anime in rovina, torturate dal presente, respinte dal passato, atterrite da un avvenire senza speranza.
Quanto più Des Esseintes rileggeva Baudelaire tanto più riconosceva un ineffabile fascino in questo scrittore che, in un tempo in cui il verso non serviva più che a ritrarre l'aspetto esteriore degli esseri e delle cose, era riuscito a esprimere l'inesprimibile, grazie a una lingua tutta muscoli e polpe, e che più di ogni altro possedeva la meravigliosa capacità di fissare con una strana sanità di espressione gli stati morbosi più fuggevoli e più oscillanti degli spiriti spossati e delle anime tristi[...]

martedì 7 giugno 2011


[...] Anch'io so bene che il tè non è una bevanda qualunque. Quando diventa rituale, rappresenta tutta la capacità di vedere la grandezza nelle piccole cose. Dove si trova la bellezza? Nelle grandi cose che, come le altre, sono destinate a morire, oppure nelle piccole che, senza nessuna pretesa, sanno incastonare nell'attimo una gemma di infinito?
Il rituale del tè, quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della stessa degustazione, quell'accesso a sensazioni semplici, autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti, a poco prezzo, di diventare aristocratici del gusto, perchè il tè è la bevanda dei ricchi così come dei poveri, il rituale del tè, quindi, ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia nell'assurdità delle nostre vite. Sì, l'universo tende segretamente alla vacuità, le anime perdute rimpiangono la bellezza, l'insensatezza ci accerchia. Allora beviamo una tazza di tè. Scende il silenzio, fuori si ode il vento che soffia, le foglie autunnali stormiscono e volano via, il gatto dorme in una calda luce. E, ad ogni sorso, il tempo si sublima.


da "L'eleganza del riccio", pagg. 83-84
A.